di Kishore Bombaci
Le elezioni in Lombardia e Lazio appena trascorse confermano un dato allarmante che ormai si presenta puntuale come uno spettro a ogni tornata elettorale: l’astensionismo.
In questa ultima tornata regionale, si è registrato un tasso di “non voto” pari a circa il 60% (37,2% in Lazio, 41,6% in Lombardia): cioè, mediamente, sei elettori su dieci hanno deciso di disertare le urne. Si tratta di un risultato record che tuttavia consolida una tendenza al ribasso da anni ormai presente nell’elettorato italiano e non solo.
Legittimo, dunque, interrogarsi su cosa tiene lontano gli italiani dalle urne ma le risposte, anche in questa giornata post-elettorale, sono sempre le stesse: lontananza della politica dal paese reale, coalizioni eterogenee e scarsamente attrattive, risultati già scontati e – sul versante del centro sinistra – estrema litigiosità degli alleati che infatti si sono presentati sostanzialmente divisi.
Insomma, gli italiani sembrano averne abbastanza della politica e dei politici.
D’altra parte, decenni di populismo “anticasta” non ha giovato alla causa. Invece di un serio percorso di educazione alla responsabilità che richiamasse al dovere elettorale, il corpo elettorale è stato coccolato nel proprio disfattismo da chi diceva che “tanto sono tutti uguali”, “sono tutti ladri” “una volta arrivati là [intendendo per “là” , i palazzi del potere] pensano solo alla poltrona”. Frasi che andrebbero bene in bocca alla famosa casalinga di Voghera, ma che invece sono diventati un vero e proprio manifesto politico per chi ha voluto lucrare sullo scontento popolare (ogni riferimento al Movimento Cinque Stelle è puramente voluto). Strategia che sul breve periodo ha pagato, ma, medio tempore, scarsamente produttivo, come dimostra l’esito di queste elezioni. Ha un bel dire Giuseppe Conte quando parla di evitare campane a morto per il Movimento. Le campane a morto suonano ormai alte, ma per la politica intesa in senso ampio generale e, mi sia permesso, nobile. E il “becchino” è stato proprio il movimento che l’Avvocato del Popolo guida.
Ma basta tutto questo a spiegare il dato dell’astensionismo? No. A mio giudizio no!
Perché, se da un lato non si può che concordare sul calo qualitativo dell’ offerta politica, questa si rivela una verità quantomeno parziale. La moltiplicazione di partiti e movimenti autoconsacratisi come novità rivoluzionaria non ha prodotto alcunché in termini di affluenza alle urne.
Occorrerebbe, perciò, anche interrogarsi sulla qualità della domanda. Non certo perché la crisi sistemica che investe le democrazie occidentali sia colpa degli elettori , ma perché è bene confrontarsi riguardo ciò che questi chiedono e quanto sia realistico, per lo meno nei tempi. Oggi più che mai, viste le contingenze storiche nelle quali ci dibattiamo (invero, con una certa goffaggine) cariche di complessità come mai nella storia dell’umanità.
Davvero qualcuno può pensare che la politica si possa dotare di una bacchetta magica per risolvere il caro-vita, le tensioni internazionali, la guerra, il tema delle migrazioni, l’impoverimento sociale, la contrazione del lavoro ecc.? Obiettivamente, qualcuno può pensare che improvvisamente questi temi trovino soluzione immediata? Ovviamente no. Eppure quando si parla di distacco tra il potere e il paese reale, a volte si ha la sensazione che questo ci si aspetti dalla classe dirigente per allinearsi con i “desiderata” popolari. Forse il problema sta proprio qui. La classe dirigente non deve allinearsi alla massa bensì offrire una visione che guidi il popolo attraverso soluzioni pragmatiche.
Invece, nel corso degli ultimi 30 anni almeno, abbiamo assistito all’esatto opposto nel rapporto tra classe politica e corpo elettorale. Come osservava qualche anno fa Luigi Di Gregorio nel suo Demopatia, i leader sono diventati follower e la classe dirigente è divenuta classe digerente (nel senso che fagocita ogni tendenza del popolo per quanto brutale sia pur di ricavarne un risultato elettorale) . Il populismo dilagante ha abituato i cittadini a pensare di di poter risolvere la complessità della modernità mediante slogan “a la carte” salvo poi scontrarsi con la difficoltà e la complessità di governare un paese complicato come l’Italia in un momento drammatico come questo.
Quindi, se vi è una colpa della politica – intesa in senso largo – è quella di aver illuso gli elettori, di averne aizzato le speranze salvo poi sistematicamente deluderle.
Ma il problema non sta nella delusione delle aspettative, bensì nel fatto che queste fossero irrealizzabili “ab origine”. Un corpo elettorale abituato alla seduzione emotiva – un bello slogan è molto più attrattivo che una calcolatrice – non è preparato a fare i conti con la realtà. E da questo punto di vista l’astensionismo ne è una conseguenza direi quasi logica. Questo è il fallimento della politica, non altri.
Un po’ come in un tradimento tra amanti. La fiducia dopo viene meno anche se la relazione continua. Essa si fa più tiepida, meno incisiva, più distaccata. Questa, in sintesi la relazione tra corpo elettorale classe politica. Un amore tradito, una passione sfumata nella routine. La percentuale di astensione ne è una impietosa traduzione matematica.
E si badi bene, non è un processo che riguarda soltanto l’Italia, ma è esteso in tutte le democrazie occidentali e ne costituisce un virus che le mangia da dentro. Questo è realmente grave, in un momento storico in cui sul piano internazionale si riaffaccia l’antica diatriba fra democrazia e autocrazia (che evidentemente non soffre di questo vulnus).
Perciò la politica deve recuperare una tensione ideale e una visione del futuro che vada oltre il contingente declinandola con un pragmatico realismo che incontri le reali necessità dei cittadini (Questo è tanto più vero quanto più trattasi di elezioni amministrative, dove il bisogno popolare incontra la visione politica in modo più diretto).
Dall’altro lato, tuttavia, è necessaria anche una chiamata alla responsabilità del corpo elettorale affinché si riprenda da questo tradimento emozionale e cessi di recitare il ruolo della sedotta e abbandonata Madame Butterfly. Il corpo elettorale proprio per la sua alta funzione costituzionale è chiamato a un riscatto che lo porti fuori dai social (dove tutti sono esperti di tutto) e si faccia parte attiva di un processo di profondo rinnovamento civile.
Non sono caso i buoni risultati delle liste civiche in Lombardia e in Lazio. Esiste una società civile, delle professionalità e delle competenze che vogliono e debbono contribuire al bene comune in prima persona non rassegnandosi all’uno vale uno.
Ecco, forse ripartendo da una doppia spinta convergente che coinvolga tanto la classe politica quanto il corpo elettorale si possa invertire una tendenza preoccupante al disinteresse per la cosa pubblica, sopratutto fra le giovani generazioni.
In assenza di ciò, ogni vittoria sarà una vittoria di Pirro e ogni sconfitta sarà un’ulteriore discesa all’inferno con l’aggravante che una percentuale così alta di disaffezione alle dinamiche della democrazia liberale, nella storia, è stata foriera di svolte autoritarie che nessuno si augura ma che, visto lo scenario mondiale, sono tutt’altro che impossibili.
(14 febbraio 2023)
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