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Il significato del lavoro, i lavori senza senso e la paura di cambiare

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di Vanni Sgaravatti

Nella società medioevale servizio significava: andare a servire altri come servitori o apprendisti. A parte le persone di altissimo status sociale, tutti mandavano i giovani a “servizio” perché imparassero come si vive, ad uscire dall’adolescenza, mettendo poi su famiglia, liberandosi, così, dal dover lavorare per altri.

Poi le corporazioni persero la centralità sociale, i rapporti di servizio furono trasformati in rapporti di lavoro retribuito. Il ciclo di vita/lavoro cambiò, la fase dell’adolescenza di fatto venne prolungata. Adulti incompiuti, secondo la percezione del tempo, tendenzialmente riempivano le strade come girovaghi, senza tetto o lavoratori proletari. Occorreva una nuova morale, un ordine puritano che, al fine del controllo sociale, promuovesse il lavoro e la fatica, come valore in sé. Quando oggi si parla di produttori di ricchezza, si pensa al capitale, mai alle persone.

Il lavoro come valore in sé e stato poi ripreso dai marxisti come valore-lavoro. Ma negli Usa, al tempo di Jefferson, la tendenza della morale sociale del lavoro era più vicina a quella dell’epoca medioevale. Il ciclo di vita con la fase di apprendistato per giovani che poi si mettono in proprio era il mito della frontiera. Le società a responsabilità limitata, di capitali, erano permesse solo per opere sociali, come la costruzione di ferrovie, dighe e infrastrutture. I capitalisti, che non erano visti in modo positivo, perché non costruivano ricchezza, avviarono, alla fine dell’800 una campagna per promuove la cultura del “capitale come produttore di ricchezza”. Il lavoratore quindi come creatore di un prodotto, anche se con mansioni parcellizzate, è una narrazione di origini religiose – partorirai con fatica l’oggetto dell’umana creazione – così come la donna partorisce con dolore, che non corrispondeva più alla realtà. Gli uomini produttori sono, in realtà, attraverso la standardizzazione e la parcellizzazione dei compiti tali da estromettere quelle doti cognitive necessarie a scelte autonome, sono assimilabili a macchine.

Ma i maggiori compiti, reali e percepiti per il senso che producono, sono quelli della cura e non della creazione produttiva. Gli stessi operai acquisiscono capacità empatiche nel conoscere e anticipare gli ordini del capo. E questi lavori di cura e mantenimento sono quelli maggiormente praticati, anche se nascosti da mansioni definite “produttive”. La maggior parte dei compiti che contengono attività di “cura” servono a mantenere, fare funzionare e, quindi, dare valore alle istituzioni sociali esistenti. Ad esempio, si può risparmiare per l’istruzione dei figli (cura dell’educazione), ma questo ha senso solo se le università esisteranno ancora.


Da queste note storiche, una riflessione, per analogia e associazione

Curare la vita e la crescita dei figli induce ad assumere inevitabilmente una parte di ideologia di conservazione, almeno a livello profondo. Il nostro avvocato interno si impegna poi a trovare forme di narrazione giustificatrici che hanno il compito di tenere insieme la nostra storia, di conciliare visioni del mondo idealiste, protese, in una certa fase della vita, al cambiamento, con la realtà dei nostri moventi istintuali più conservatori.

Dietro le posizioni di critica politico sociale, spesso ingiustamente apostrofate come “intellettualismi da salotto”, in realtà, si nasconde il compromesso tra le due istanze: conservare sia le esigenze di stabilità esistenziali e sia l’identità sociale che si è formata in età giovanile e che ha fatto di noi quello che siamo stati e che ci piacerebbe mantenere. Conservare è un must, mentre cambiare significa viaggiare verso l’incognito, lasciare il conosciuto per l’ignoto, così come si lascia la vita per un al di là di cui nessuno ha fatto esperienza. Una chiara metafora della morte, da cui rifuggiamo da quando ci siamo narrati come diversi dal mondo circostante, senza accorgersi che così facendo non potevamo evitare di immaginarci la ricomposizione di noi con quell’altro da noi e quindi la fine della nostra coscienza autobiografica. Sempre presi dalla pre-occupazione di sfuggire al buco nero che attrae le nostre coscienze e che è una lotta tutta interna, perché, come è noto, quando la nostra morte sarà una realtà non ci saremo noi o meglio non ci sarà la nostra coscienza a registrarne il fatto.

Le spinte ad essere un po’ tutti conservatori e ad inventarci narrazioni morali che ci giustificano sono veramente molto comprensibili, ma sarebbe molto opportuno che ne tenessimo conto, quando interpretiamo il mondo e noi stessi e pensiamo che lo facciamo in modo obiettivo e oggettivo. Una narrazione che inevitabilmente è influenzata dalla nostra paura di rischiare di affrontare le metamorfosi sociali, che talvolta auspichiamo, rimanendo nel nostro “salotto”.

 

(10 novembre 2022)

©gaiaitalia.com 2022 – diritti riservati, riproduzione vietata

 





 

 

 

 

 

 



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