di Daniele Santi
Se il trono di Meloni d’Italia scricchiola, la colpa “è dell’opposizione, ma non solo”. All’interno del racconto possibile del tutti ce l’hanno con lei, dell’essere un underdog e quindi si gioca la carta del vittimismo: quel “non ci fanno lavorare” che già usò peggio di lei persino Berlusconi quando, non essendo in grado di realizzare i mirabolanti miracoli con fuochi d’artificio annessi che prometteva in campagna elettorale, dava la colpa a quelli che non lo lasciavano lavorare, alle opposizioni, perché a queste destre la democrazia parlamentare con le opposizioni che addirittura si permettono di criticare non piace per niente.
Così la premier nuovamente in campagna elettorale spolvera i toni garibaldini “O si fa l’Italia o si muore” e paradossalmente dall’alto di tanta saggezza dimentica che si morirà lo stesso, e l’Italia rimarrà lì con tutti i suoi difetti: prima tra tutti quello di votare chi grida più forte, e almeno in questo Meloni ha pochissimi rivali. Dunque, nella sua narrazione governativa, il Meloni uno avrà vita lunga – che non è certo un male in questo paese dove non riesce a governare nemmeno chi racconta di farlo bene: ma non è alla momentaneamente inesistente opposizione che Meloni deve rivolgersi, piuttosto in casa sua, ai suoi alleati, quelli che tiene zitti e muti ricordando loro le percentuali elettorali. Gramsciana, persino.
E quindi, come riporta il Corriere che non è certo un pericoloso giornale comunista, si spertica in granitiche convinzioni: “Sono certa che avremo cinque anni (al governo, ndr) nonostante i tentativi di buona parte dell’opposizione [sic], e non solo, di fare qualsiasi cosa per mettere i bastoni fra le ruote” ergo chi “pensa di mettere sé stesso a fronte del destino di tutti, si sbaglia”. Perdere tempo ad indicare qualcuno non ha senso: soprattutto con Fontana che traballa e con FdI che vuole sbarazzarsi degli alleati nelle urne anche in Lombardia in nome dell’io ho il triplo di voti di voi.
Se certamente conta l’Italia, Fratelli d’Italia conta di più.
E’ la riunione programmatica pre-elettorale del partito che protegge Meloni, pieno di affetti famigliari, quasi una dinastia che se ne sentiva la mancanza dopo i Savoia, e che deve stemperare i toni sulle accise dopo la geniale soluzione del “diminuiranno le accise quando l’Iva aumenterà” che presupporrebbe una soglia Iva da raggiungere, soglia della quale non c’è traccia semplicemente perché della soglia nessuno ha parlato. Così come non c’è colpa delle opposizioni, perché delle opposizioni non c’è traccia proprio come non c’è destra nella Divina Commedia, nonostante le frasi ad effetto del ministro della Cultura.
Siamo dunque di nuovo alla presidente del Consiglio all’attacco, ma il nemico non c’è. Non c’è quello che indica lei: il nemico sono i problemi dell’Italia che ha promesso di risolvere in quarantacinque giorni di campagna elettorale nella quale ha promesso l’impossibile, parlando di misure da 180 miliardi di debito di deficit, raccontando le mirabolanti avventure di ciò che avrebbe fatto qualora l’avessero votata, salvo poi non essere in grado di fare nulla di ciò che ha promesso quando l’hanno votata semplicemente perché non può. Nel bel mezzo di simili autoprofezie pretendere anche che coloro che hanno dato un voto sulle base di promesse che oggi non vengono mantenute non si incazzino, non è degno di quella Meloni che gridava furiosa quando le pareva che i governi non mantenessero le promesse. Poi la racconterà come vuole e dando la colpa a chi vuole, ma la sua parabola ascendente non sarà eterna e prima la presidente Meloni lo capirà tanto meglio sarà per lei e per il paese che governa.
(15 gennaio 2023)
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