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Prevenzione sanitaria senza una visione politico-sociale. Come parlare di niente per parlare di tutto….

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di Vanni Sgaravatti

Come si può pensare di organizzare convegni, seminari, riunioni, sulla prevenzione o sulla sostenibilità del sistema sanitario universalistico, senza parlare di politica o meglio di visione politica, cioè su principi, criteri e modalità con sui la comunità persegue collettivamente il benessere di tutti?

Si cerca nei convegni sulla sanità di isolare l’ambito specificatamente sanitario dal contesto generale, anche se tutti, naturalmente, concordano con la necessità di un’offerta che sia etica e risponda ai bisogni di salute e benessere delle persone.

Affermazioni che spesso sembrano aggiunte necessarie per dimostrare che si è politicamente corretti, si è in linea con i valori teoricamente dichiarati, che sono, nel migliore dei casi, una specie di lasciapassare che certifica di essere un buon “cristiano” (in senso lato), nel peggiore dei casi, una specie di vestito di circostanza che si mette in quelle occasioni.

In quei convegni, esiste un convitato di pietra: l’economia, in senso lato intesa. Cioè le modalità con cui gestire risorse scarse, che porterebbe a riflettere sulle condizioni che determinano la capacità dell’offerta sanitaria, a sua volta collegata con la dinamica della domanda di servizi sanitari. Per essere più esplicito, sto parlando dei fattori sociali, dei relativi tipi di disuguaglianza che significativamente incidono sulla domanda, a sua volta collegata sulle risposte che l’offerta sanitaria dovrebbe pianificare. Fino a quando si parla di cura delle malattie, di toppe agli effetti delle patologie sanitarie derivanti da questi fattori lasciati fuori dall’ambito sanitario, il discorso sulla efficienza ed efficacia ci può stare: molto parziale, ma ci sta. Ma quando si affronta il tema tragicamente di moda della prevenzione del disagio allora pare davvero assurdo non considerare tra le cause che presiedono il disagio da curare, le fragilità della vita che i futuri pazienti vivono da attuali pazientissimi sociali, prima di diventare pazienti sanitari.

Come si fa allora a parlare di sostenibilità del sistema universale e della prevenzione, pur con il nobile compito di dimostrare, conti alla mano che prevenire costa meno di curare, senza toccare la questione della visione politica e politico sociale?

Sembra che per far digerire ai dirigenti della sanità la territorialità della nuova medicina, occorra ancora una volta considerare l’uomo un costo, il bisogno del paziente una variabile di questa equazione, dimostrando che l’investimento in prevenzione si ripaga. In realtà, così discorrendo, in quei convegni si parla eccome di politica, ma non lo si dice o persino non ci se ne rende conto.

Peraltro, un tentativo di far digerire al bilancio della spesa in prevenzione qualcosa che fa tornare i conti lascia il tempo che trova, in un paese come l’Italia, in cui si fa politica economica in base alle emergenze. Voglio dire che se si spende 100 per la prevenzione sostenendo che fra 10 anni ne risparmio 150, si presuppone che qualcuno trovi quei 100, che oggi sembra non ci siano. Aggiungendo poi che gli investimenti dovrebbero essere promossi dalla classe politica del momento, per ottenere meriti che saranno attribuiti ad un’altra classe politica, quella che ci sarà fra dieci anni.

Dovremmo, per essere intellettualmente onesti, parlare di visione politica. Da una parte quella neoliberista, del “trickle down”, cioè cresciamo, così alcuni diventano più ricchi, investiranno di più ed i benefici, a cascata, arriveranno a tutti. In questo quadro gli effetti negativi della transizione, cambiamento, fasi di crescita sono coperti dalla “carità”, da linee guida etico morali che fanno dei casi eccezionali il modello di comportamenti morali su cui dibattere.

Dall’altra la visione che ritiene il complessivo sviluppo del benessere collettivo non una necessità per potere crescere (operatori in buona salute per produrre), ma l’obiettivo principale della comunità, in cui la ricerca delle pari condizioni e diritti e della promozione dell’uguaglianza non sono un vincolo da digerire per crescere (la democrazia conviene), ma sono l’obiettivo. E l’eccezionale (povero affetto da disgrazie particolari) è il risultato di errori di sistema che inducono a rivederlo per un continuo miglioramento.

Nel primo caso, quello neoliberista, la soluzione sta nei muri che dividono la ricerca e l’eccellenza medica praticata, dal resto. E quando l’esperto o il grande chirurgo opera al di fuori di quelle eccellenze ben pagate, nel migliore dei casi si sente personalmente buono (in fondo il sistema corregge le distorsioni, magari pensa), nel peggiore dei casi fa esperienza con i più indigenti, in situazioni meno a rischio di ritorsioni e di insuccessi che possono incidere sulla carriera. Un importante amico medico mi ha raccontato che molti americani ritengono sia un’ingiusta ingerenza obbligare o incentivare le persone a mettere meno a rischio la propria salute: “E’ un problema loro”. Quando il mio amico ha risposto che non era un problema solo del singolo, ma implicava costi sociali sanitari della collettività, ha riscontrato sguardi perplessi: “Ma lui se l’è voluta, se ha i soldi paga e fa crescere il sistema, altrimenti, la morte è il destino che ha voluto”.

Ma i ricercatori ed i medici, anche quelli italiani, non vivono sulla luna: anche molti di loro sono giovani e cercano un proprio percorso, un proprio posto al sole, tra una baronia e l’altra, anche loro vogliono ricompense di stress psicofisici notevoli, di notti di guardia e anche loro, dovendo far crescere la propria famiglia e la propria immagine di successo fanno fatica a non resistere agli incentivi che professioni di eccellenza ospedaliera, più spesso all’estero che in Italia, ti permettono. E anche in questo caso si parla di scelte comprensibili di tipo personale, che lasciano fuori dalla riflessione questo strano concetto da sociologi relativo alla politica sociale. Che c’entra la politica sociosanitaria con le milze che asporto, con le gambe che aggiusto, sembra di sentire dire. Poi passa il tempo, quello che sembrava la piena attuazione del nobile giuramento di Ippocrate diventa la produzione di numeri: per i chirurgi numero di “tagli” fatti, per i ruoli manageriali amministrativi: numero di giorni di ricovero.

E le persone, dove sono? In gioventù, la propria famiglia, i figli a cui non si ha il tempo da dedicare come si vorrebbe, gli amici da frequentare in paradisi di vacanza, poi gli anni passano e allora ci si accorge del patto che Faust ci ha fatto firmare e vorremmo emendare i nostri errori, diciamo politici, e qualcuno si butta nel volontariato, regala il proprio tempo per restituire all’umano il mal tolto, molto più spesso, il ben tolto, cercando di ritrovare negli occhi del singolo, quel contatto, quella relazione che non si ha avuto il tempo di creare prima. E il tempo impietoso passa.

Non sono parole di giudizio e tanto meno verso molti di noi, presi individualmente, né esortazioni a fare di più, ma solo a capire che si lascia qualcosa indietro se si parla di ambiti separati senza il convitato di pietra, cioè, senza una riflessione sulla scelta della visione politica della società e dell’uomo che si ritiene di perseguire.

Senza questa riflessione, nel migliore dei casi, stiamo parlando di niente, nel peggiore, stiamo rafforzando inconsapevolmente una politica, quella dell’efficienza tecnica fine a se stessa, che non cambia di valore etico se ci metti, come il sale sopra la minestra, l’efficacia (cioè la capacità di raggiungere obiettivi, sanitari), visto che non si sa quali siano gli obiettivi generali da raggiungere, a cui quelli particolari (la cura del singolo) dovrebbero essere collegati.

Ma, in fondo, Margaret Thatcher diceva che la società non esiste, un concetto che si può declinare come: siamo tanti atomi dispersi, in cui ognuno si muove da solo, categorizzabili in tanti modi, tranne in quello di società umana, soprattutto se intesa come un fattore emergente (il sociale), impattante su quello individuale.

Allora, per tornare ai convegni, riunioni, seminari, dove non si parla di politica, alcuni partecipanti, invitati spesso per fare numero e dimostrare l’audience, parlano di chiacchiere vuote del relatore che, inevitabilmente e impietosamente, finisce sotto la lente della loro critica (tutti ci possiamo permettere tali critiche, non avendo l’obbligo di fare relazioni), pronti a denunciare il narcisismo di uno o di un altro, che parla semplicemente per fare bella figura (chi è senza peccato scagli la prima pietra).

Ma le motivazioni per cui si finisce a fare mostra di una serie di considerazioni “politicamente corrette”, sono più articolate. Si parla del “corretto”, perché ci si vuole occupare del problema facile, senza affrontare quello più difficile. Nello specifico dei singoli, poi, le motivazioni sono tante, consce ed inconsce. Non si deve parlare esplicitamente di politica per non essere divisivo, né essere troppo negativo per non togliere le speranze (che sia un alibi o no poco importa), non essere troppo critico in convegni dove il relatore si considera ospiti, non attaccare per non essere attaccato, o, se sei un politico, per non minare la possibilità di un compromesso.

Mi è capitato ultimamente di trovare interessanti proprio quei personaggi che quando erano sulla cresta dell’onda della politica nazionale e forse della vita venivano sospettati di eccessivo riformismo, mediazione, politicismo di professione. Sono quegli uomini che cominciano a vedere chiaramente che il pubblico di riferimento rimasto, non sia proprio quello che hanno davanti. Molti giovani non li becchi: sono al momento attenti a trovare un loro posto al sole e nel cercarlo, a conformarsi o, molto più spesso, a criticare i decisori, coloro che stanno dentro il sistema. Sono quei figli a cui hai chiesto in prestito il mondo.

Molti cari, i migliori, che ti hanno accompagnato nella vita magari non ci sono più e ti sembra ti guardino dall’alto e, stando in alto, non possono più sentire le tue giustificazioni sul fatto che non potevi fare o, in questo caso dire, di più. E, quindi, finalmente liberi dalla necessità di carriera, che, in senso buono significa anche mediare per potere acquisire posizioni che poi ti permettono di cambiare il mondo, ci si riesce ad esprimere con maggiore sincerità. In particolare, quei signori (penso a due in particolare, bolognesi) che imprevedibilmente sanno toccare corde, rimaste inattive da tempo.

Ma poi c’è un altro convitato di pietra, che si avverte ascoltando le parole usate in convegni e seminari: è quel dolore burocratico, che molti operatori sanitari percepiscono direttamente come frustrazione che gli impedisce di praticare la loro professione, di perseguire le loro attitudini, di realizzare quello che vorrebbero fare. Però, gli operatori sanitari, mentre sono, ovviamente, in primis, anche pazienti e quindi sentono il dolore dell’altro e forse per l’altro e per l’umano che non si riesce a curare, non vivono quel dolore burocratico sanitario nello stesso modo. Di burocrazia tutti possono piangere, medico e paziente, ma solo quest’ultimo muore o sente l’impatto del dolore nel proprio corpo.

In conclusione, l’incidenza dei fattori sociali e della politica sulla sanità, l’attuazione dell’etica della cura e la sostenibilità finanziaria rappresentano questioni molto conosciute da chi è attiguo a questi problemi e ha avuto la fortuna di studiare e riflettere. Ma ci sono momenti di comunicazione in cui queste riflessioni sociali vengono istituzionalmente condivise, che evidenziano quello scollamento tra pensiero e prassi: sono i momenti operativi che si esprimono, in leggi, regolamenti, protocolli, e quelli culturali in convegni, seminari, riunioni.

L’amaro in bocca che continuo a sentire, peraltro da anni, è che, come molti sanno, questo sistema di comunicazione e condivisione è triforcuta: il linguaggio operativo, formale o no, è diverso da quello interpersonale privato ed ancora diverso da quello che si utilizza nei convegni. È lo stesso amaro in bocca che provo quando, nel corso del lavoro nel mio progetto sociosanitario assistenziale: “Cura delle relazioni per la prevenzione del disagio” a Bologna, mi imbatto in vincoli alla trasparenza informativa che mi induce a dire che sarebbe ora di smettere di nascondere i segreti di pulcinella. Del resto, il politico o relatore convegnista innovativo che corre ai ripari rispetto alla critica di dire che “tutto va bene” (critica che sente vera, perché si ricorda di quello che provava quando stava in platea) e che dichiara nei luoghi di comunicazione pubblica che ci sono problemi e non ci sono risorse destinate a questo a quello induce a chiederti: “Ma se chi rappresenta la politica e le istituzioni viene e denuncia, chi è il denunciato?”.

In realtà, si sa bene (o forse non si vuole sapere) che poi c’è l’apparato tecnico e burocratico che non ti permette di accedere direttamente a dati e informazioni su come vanno davvero le cose sul campo, in situazioni specifiche, a meno che non tu non sia autorizzato o commissionato o la legge non te lo permetta.

Insomma, sembra il gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, giocati diversamente in base al luogo di comunicazione sociale frequentato. In realtà, è anche peggio di così: i due tipi di poliziotti non sanno se loro sono i buoni o cattivi e, di norma, ognuno pensa sia l’altro quello cattivo.

 

 

(13 luglio 2024)

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